Rapimenti di stato

      Io non riesco a starmene zitta. E allora parlo anche se non conosco (da cronista) fino in fondo i particolari di una storia che non mi lascia dormire. E parlo perché so che a Latina, da due giorni, un bambino di 12 anni (figlio di una donna impegnata quotidianamente nella battaglia contro la violenza sulle donne e sui minori) è rinchiuso in una struttura minorile che lo Stato si ostina a chiamare casa-famiglia. Il bambino, per ordine di un giudice che, per legge, dovrebbe tutelare innanzitutto la sua psiche, è stato prelevato da scuola e trasferito, tra le lacrime e la disperazione, in un luogo “protetto”. Alla scena straziante hanno assistito anche i compagni che hanno, a loro volta, subito un trauma.

      Ferdinando Tripodi, vice presidente di “Valore Donna” di Latina, associazione contro la violenza sulle donne e sui minori, racconta:  “Una scuola messa sotto assedio, un bambino strappato all’improvviso dal banco e dalla sua vita, e convinto, solo dopo ore, a seguire gli assistenti sociali. Due auto che lo portano via a gran velocità. Nessuno ha potuto salutarlo, neanche i familiari. Gli amichetti di scuola in lacrime, scioccati. La gente del borgo a bocca aperta davanti al cancello della scuola. Scene drammatiche di cui cerchiamo un responsabile. Qualcuno avrà pur deciso che tutto questo andava fatto, in queste modalità disumane”.

      Dalle cronache ho saputo che in classe, oltre ai servizi sociali, al curatore e al tutore del tribunale, si sarebbero presentati venti (DICO VENTI) poliziotti con tanto di telecamera a filmare l’azione. Uno schieramento di forze degno di un criminale incallito. Il ragazzino adesso si trova in un centro di accoglienza (di più non possiamo sapere) e su di lui pende un divieto che mi fa venire i brividi: non può incontrare mamma, papà e nonni; non può tornare nella sua scuola; non può frequentare gli amici, il catechismo e la scuola calcio. La sua colpa? I genitori separati che litigano e che, forse, usano il ragazzino come scudo.

      Da cronista ho seguito diverse storie simili. Ho raccontato di figli contesi. Ho incontrato mamme e papà disperati. E sono entrata nelle case e nelle famiglie messe al bando dai giudici e dagli assistenti sociali. E sempre mi sono chiesta come sia possibile arrivare a tanto. Non ho mai riscontrato elementi tanto dannosi da giustificare un provvedimento così cattivo nei confronti del bambino, unica vera vittima di tanta violenza.

      Non voglio cadere nella retorica, però diversi dubbi (cattivi e forse riduttivi) mi bloccano la digestione. Perché i figli di genitori che litigano devono finire rinchiusi in strutture minorili anche quando il contesto familiare e sociale è sano? Perché non vengono affidati a nonni o zii più ragionevoli dei genitori? Possibile che non ci sia alternativa all’isolamento e alla reclusione del minore? Perché il giudizio di insegnanti e dirigenti scolastici spesso viene ignorato da chi prende decisioni così drastiche? E’ accaduto anche l’altro giorno a Latina, con il ragazzino di 12 anni: le insegnanti raccontano di un bambino equilibrato, ben seguito e ben curato, senza apparenti disturbi, diligente e volenteroso. Non può bastare questo a far sorgere qualche dubbio sulla bontà di un allontanamento forzato dagli affetti?

      E’ vero, ogni storia è un caso a sé. E’ vero, queste storie sono scomode anche da raccontare. E’ vero, chi ne parla rischia di prendere posizioni difficili, qualunquiste e spesso querelabili. E’ vero, non si può e non si deve generalizzare. Ma fino a quando si può mettere a tacere la coscienza? In ballo ci sono i destini di tanti bambini. E violenza non significa solo pedofilia o botte da orbi. Violenza è anche infliggere una pena così dura ai bambini.

      Chiudo, riportando un dato e astenendomi da ulteriori commenti: in Italia sono oltre 32mila i bambini che vengono chiusi nelle comunità (spesso per cause non sempre giustificate) e vi restano in media due anni. Allo Stato costano 200 euro al giorno.

      E poiché i numeri mi ingarbugliano il cervello, i conti fateli voi.

Mariella Romano

Giornalista freelance, ho imparato il mestiere di cronista consumando le suola delle scarpe. Non canto storie, scrivo ciò che vedo e racconto l’umanità che incontro. Non sopporto i numeri. Non so fare equazioni e conti e, in un mondo di variabili, alla ragione preferisco il cuore. Mi piace, assai, la terra in cui vivo.

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