“Ho mangiato i topi per sfamarmi”. Il racconto dell’ultimo deportato torrese
Torre del Greco, la testimonianza che Giuseppe Colamarino ha rilasciato a gennaio 2019
“Ho mangiato topi per sfamarmi”.
Giuseppe Colamarino ha novantasette anni e un dolore mai dimenticato. Una ferita aperta che gli occhi azzurri come il cielo raccontano senza veli. Ancora oggi il ricordo di quei ventiquattro mesi di detenzione in un campo di concentramento nei pressi di Innsbruck, punge come una lama conficcata nel cuore. Lo capisci dallo sguardo e ancora di più dalle lacrime che salgono in gola ogni volta che un particolare riaffiora alla memoria. Un dolore che si rinnova anche adesso che sul grande schermo allestito nell’ex Orfanotrofio della Santissima Trinità in occasione della Giornata della Memoria organizzata dall’assessore alla Cultura, Anna Pizzo, scorrono le immagini di Auschwitz catturate dall’obiettivo di Pasquale D’Orsi in visita al campo di detenzione in Polonia con Michele Di Luca e il giornalista scrittore Francesco Raimondo.
Giuseppe Colamarino è forse l’ultimo deportato di Torre del Greco, ancora in vita: soldato a Venezia, fu fatto prigioniero dopo l’armistizio firmato da Badoglio e trasferito in Austria, nel campo di lavoro e rieducazione di Reichenau. Una medaglia appuntata sul bavero della giacca che dà meriti, che offre l’illusione di un riconoscimento, ma non toglie il peso di una prigionia che ha calpestato diritti umani e dignità: la paura di morire a vent’anni, la fame, le raffiche di mitra che uccidono senza un perché.
Su tutti, brucia il ricordo del primo Natale trascorso a Reichenau: “Non avevamo cibo ed eravamo affamati. Il cuoco fece un giro di perlustrazione in campagna e tornò con alcuni topi che era riuscito a catturare. Li cucinò con le patate e fu la nostra cena”, racconta tra le lacrime Peppino, come si fa affettuosamente chiamare dall’assessore Anna Pizzo e dal sindaco Giovanni Palomba che hanno voluto rendergli omaggio nel giorno dedicato alla Memoria.
“Sono figlio di panettiere e questo mi ha salvato dall’abisso”, aggiunge Giuseppe Colamarino. “Nel campo di concentramento, una donna che aveva il comando, venne a sapere che ero di Torre del Greco. Mi chiamò e mi chiese: ma davvero arrivi da quel paese? Io ci sono stata due anni prima che scoppiasse la guerra per visitare il museo del corallo. Quella confidenza mi spinse a chiederle aiuto: e così mi misero a fare il pane. A sera, mi consegnavano i pezzi duri da dare alle galline: io invece di eseguire gli ordini, li bagnavo e li mangiavo. Così sono riuscito a sopravvivere”.
Le lacrime prendono il sopravvento sulle parole: il ritorno a casa dopo due anni, il matrimonio “con la donna giusta per me”, la gioia della paternità; tre figli ormai professionisti, nipoti affettuosi e una vita tranquilla, non sono mai riusciti a restituire serenità alle notti di quest’uomo al quale per troppo tempo è stata negata la vita e la dignità. Riesce a fare solo un appello, prima di concludere il suo racconto che ancora una volta s’interrompe con un groppo in gola: “Apriamo le porte a chi soffre la fame e la persecuzione. Lasciamo entrare i migranti e nei limiti del possibile, aiutiamoli. Sono uomini disperati come lo siamo stati noi”.