1. La scoperta

Quando la diversità di un figlio costringe i genitori a indossare l’elmetto

Barbara prima di diventare mamma, sognava di raccontare il mondo girando con carta, penna e telecamera. Documentava i fatti della vita con il distacco del cronista e immaginava per se stessa un futuro lontano da casa, a New York. Senza figli. Senza famiglia. Ma un giorno, all’improvviso, l’amore ha scelto per lei e l’idea di lasciare tutto per inseguire il sogno di diventare inviato di guerra, è evaporato come l’acqua al sole.  Oggi è mamma di due bambini bellissimi ai quali dedica ogni ora della giornata. Un po’ per scelta un po’ per obbligo: Flavio è un bambino “diverso” che ha bisogno di attenzioni e cure costose che, almeno in Campania, il servizio sanitario nazionale non garantisce. Il Diario di una mamma geneticamente incompatibile racconta il dramma della solitudine nel quale sprofondano i genitori alla ricerca disperata di sovvenzioni  statali e strutture mediche qualificate.       

È una mattina d’estate come le altre quando, nella mente, si insinuano i primi dubbi sulle capacità del mio bambino. È lì, sul fasciatoio, inerme, quasi assente, mentre gli tolgo il pigiama, gli cambio il pannolino e gli infilo la canotta per andare al mare. Non alza le braccia, non collabora. Eppure ha quasi due anni.

“Sarà normale questo bambino?”, penso ad alta voce.

Ma non sono sola. Con me c’è mia suocera che subito mi zittisce: “No eh! Questo non te lo consento!”. Proprio lei,  sempre così calma e dolce, sembra aver perso le staffe. “Cosa vuoi dire con questo?”.

“Non c’è bisogno di scaldarsi tanto”, le rispondo. “Solo mi sembra strano che Flavio sia così passivo, mentre il fratello non lo era.

Irrompe anche mia madre (aiuto!!!) con la frase che sembra scontata: “Le dita della mano non sono tutte uguali”.

Me la faccio bastare, quella frase. Anche perché per il mio cuore è più facile: l’idea che Flavio possa essere un bambino speciale mi terrorizza e nello stesso tempo mi sembra irreale. “Perché”, mi dico sotto voce, “sono cose che capitano agli altri, non a me. E poi, io ho fatto anche l’amniocentesi!”.

Ma.. il tempo passa e Flavio – che, proprio come suo fratello, a sette mesi aveva già cominciato a chiamarmi mamma – è sempre più silenzioso e solitario. A quasi tre anni, ancora non saluta, non indica, sembra assolutamente disinteressato a chiunque gli dedichi attenzione. Quando usciamo e lui è nel passeggino, ha lo sguardo perso in avanti, non si gira se passa un camion, se c’è un cane che abbaia, se per strada qualcuno lo saluta o si ferma a parlare con me. Con Flavio posso permettermi persino di trascorrere un’intera mattinata in un negozio di abbigliamento a provare innumerevoli capi: non dà segni di noia; non fa capricci. Semplicemente è lì e guarda dal suo passeggino. Guarda ma non osserva. Tutti pensano che sia un bimbo buono e in effetti lo è. Flavio è bello, dolce, tenero ed essere sua madre è come tornare bambina e giocare con un bambolotto. Quando mi chiedono come me la cavo con due figli piccoli (il primo ha appena due anni in più), io rispondo sempre che se tutti i bambini fossero come Flavio, ogni donna potrebbe fare cento figli.

Eppure. Eppure, qualcosa non mi torna. Mi sta bene che per farlo addormentare basta metterlo in culla, dargli il bacio della buona notte ed uscire dalla stanza. Ma trovo strano che Flavio resti in silenzio senza protestare anche quando, rientrando in camera, mi stendo sul letto di fronte al suo per raccontare favole, cantare almeno tre ninna nanna e riempire Valerio di carezze affinché si addormenti. Certe sere Flavio ci guarda e mai prova a scendere dal suo letto per mettersi vicino a noi.

Ma è durante un pomeriggio qualsiasi che capisco. Guardo Flavio e, terrorizzata, prendo consapevolezza di ciò che ho sempre pensato e che ancora oggi mi riesce difficile ammettere e spiegare perfino a me stessa: il mio bambino è diverso. Meraviglioso e diverso dagli altri. Lo capisco guardandolo giocare. Seduto a terra, stringe tra le mani un giochino e se ne sta immobile. Mi avvicino, provo a parlargli. Lo chiamo per nome ma lui non si gira. Non mi guarda. Provo a fissarlo negli occhi e capisco. I bellissimi occhi che hanno il blu della notte, l’azzurro del cielo, il verde del mare e sprazzi di stelle, sembrano vuoti. Vuoti come l’abisso nel quale mi sento precipitare. 

1- Continua

Barbara Caccioppoli

http://mariellaromano.it

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