Trenta secondi di tromba per l’addio a Salvatore, capostazione ucciso da un furgone
Trenta secondi di tromba per ricordare Salvatore Brancaccio. A cinque giorni dalla morte del copostazione Eav, travolto venerdì 26 marzo intorno alle 16, da un furgone parcheggiato nella stazione di Bivio Botteghelle a Napoli, i colleghi della Circumvesuviana lo saluteranno suonando all’unisono la tromba in dotazione su tutti i convogli. L’appuntamento è per le 8,50 di mercoledì 31 marzo. A seguire sarà celebrata la messa di Pasqua per i dipendenti Eav, durante la quale sarà ricordato anche Salvatore.
A Salvatore Brancaccio, mio cugino.
Eri silenzioso. Ma quante cose raccontavano i tuoi occhi azzurri e profondi! Mi verrebbe da dire azzurri e profondi come il mare. Ma sarei banale. Perché erano lo specchio, lindo, dei sentimenti che ti attraversavano l’anima: bastava incrociare lo sguardo per leggere l’emozione del momento che vivevi. Mai vi ho trovato l’ombra della cattiveria, del risentimento, della rabbia, dell’odio. Anche nelle giornate più buie, l’azzurro era azzurro cielo – sgombro di nuvole – perché sapevi affrontare il peso delle avversità con una punta di ironia e ottimismo. Ma non era superficialità. Erano carezze. Era tenerezza che riservavi alla vita e a chi ti era accanto.
Ci sono persone che sulla faccia hanno un perenne ghigno ombroso e arcigno, qualsiasi sia la circostanza e il luogo. Tu, al contrario, sul viso di bambino mai cresciuto, avevi stampato un perenne sorriso appena, appena accennato. Ti presentavi così. Lo sfoderavi, nella tua immensa semplicità, facendolo diventare il tuo abito. Ti mostravi al mondo senza menzogna, senza falsità. Lo posso testimoniare io che ti ho stretto tra le braccia fin dai primi vagiti.
Mi verrebbe da dire: eri buono. Ma anche questo è scontato ribadire, soprattutto nel momento più nero della nostra esistenza. Chi non diventa buono, nelle parole di commiato, quando muore? E allora, Salvatore, come faccio a raccontare che buono lo eri davvero? Come faccio a descrivere chi sei stato, senza cadere nel banale e senza confonderti a milioni di altri uomini?
Ci sto pensando da quel maledetto venerdì 26 marzo. Cinque giorni fa. Ci sto pensando da quando, bussando alla porta della casa in cui hai vissuto l’infanzia, l’adolescenza e i primi anni della giovinezza, un tuo collega, affranto, ci ha raccontato che un furgone, con i freni fuori controllo, ti ha travolto togliendoti la vita. Non voglio dirti ciò che ho provato io che sono solo l’ultima di una schiera infinita di persone che ti volevano bene. Ma credo di poterti rappresentare il minuto esatto in cui ha iniziato a sgretolarsi il mondo della tua Stefania e della piccola Delia, le donne che hai amato come te stesso; che hai protetto e rispettato come solo un uomo buono e sincero sa fare. E voglio raccontarti l’abisso nel quale sono sprofondati in una manciata di secondi tua mamma Elena e tuo padre Placido, per i quali eri colonna e punto di riferimento. Come tua sorella Rosanna, li ho visti precipitare in un pozzo nero, risucchiati dal vortice di dolore. Non so se troveranno più la forza di riemergere, di rimettere insieme i pezzi di un mosaico, perfetto e prezioso, andato in frantumi.
Ci sono pensieri, domande, dubbi che, da quel maledetto giorno, non se ne vanno dalla testa e chissà se mai riusciremo a sapere come e perché sei morto, in un pomeriggio di primavera, mentre eri impegnato a fare il tuo dovere di lavoratore rigoroso, in una stazione di snodo dei treni Eav. Chissà se capiremo mai perché sei rimasto schiacciato sotto un furgone bianco. Ma al netto di perizie e ipotesi investigative, mi resta tra le mani l’imponenza della tua generosità e, nel cuore, la gioia di averti avuto come cugino.
Addio Salvatore. Addio, ma non per sempre.